PER UN PUGNO DI DOLLARI

futures

[Reportage pubblicato sul numero di dicembre 2015 di TennisBest Magazine]

REPORTAGE – Quattro settimane vissute nel circuito Futures, dove si lotta per pochi punti ATP e la sopravvivenza economica, fra incordature fai da te, passaggi di fortuna, hotel a basso costo e l’eterno dilemma per il pranzo: ticket da 10 o da 15 euro?

Steven De Waard bussa alla porta della players lounge. La chiamano così, come nei grandi tornei, dove la parola lounge significa divanetti, frigoriferi pieni di bevande, cibo, playstation, biliardini, divertimenti e hostess dalle gambe chilometriche. Al Tennis Club Bergamo invece è tutto diverso. Una cinquantina di metri quadrati, deserti, coi muri bianchissimi, un paio di finestre, tre tavolini e una decina di sedie, piuttosto datate. Lui è australiano, ha festeggiato i 24 anni a maggio e il best ranking qualche giorno prima: numero 935 del mondo. Scarso secondo gli internauti, pure peggio se a parlare è il portafoglio. Ha deciso di provare la vita da ‘pro’ nell’aprile del 2011, e dopo quattro anni ha messo insieme circa ottomila dollari, settemila euro. Divisi per 48 mesi fa 145 al mese, meno di cinque euro al giorno. Roba da far ridere i vu cumprà della stazione. Due tavolini sono occupati, chiede se può prendere il terzo. Lo sposta vicino alla finestra, apre il suo borsone Wilson di tre anni prima ed estrae una piccola macchina incordatrice fai-da-te, fedele compagna di viaggio nella stiva di qualche compagnia low cost, sballottata da una parte all’altra dei carrelli fino al nastro della salvezza. È successo anche qualche giorno prima, sul WizzAir Bucarest-Orio al Serio, novanta euro con due bagagli se prenotato con qualche giorno d’anticipo, e tanto male alle ginocchia per chi passa il metro e novanta. Siede in fretta e furia, fissa la macchina al tavolo e inizia il lavoro. Ha poco tempo, sono le 14.10 e il suo secondo turno del doppio inizia dopo una ventina di minuti. Ci tiene molto, insieme al diciottenne Marc Polmans (lui sì, una discreta promessa) un paio di Futures li ha vinti, arrivando a ridosso dei primi 500 del mondo. Tira ogni corda con grande minuzia, con un occhio all’orologio, e fa niente se Marco Barcella di Mauro Sport, in postazione a pochi metri dai campi e anche dal camper rattoppato a scotch di un tennista polacco, chiede appena 10 euro ma garantisce standard qualitativi ben diversi. Lui quel deca preferisce risparmiarlo per un pranzo in più: pasta al pomodoro e petto di pollo nel ristorante del buon Luigi. Cibo di classe per uno abituato alle imburrate delle sue parti, da impallidire solo guardando una puntata doppiata male di Masterchef Australia.

Il suo è uno dei tanti volti che si incontrano nei tornei Futures, il grado più basso del professionismo, dove la palla e il sudore scorrono come nel tour maggiore, ma i Suv nel parcheggio appartengono ai soci del club, mica ai giocatori. Loro si accontentano dei treni (meglio se regionali) o di un’utilitaria da spremere su e giù per l’Italia e non solo, fra ITF da diecimila, tornei nazionali e gare a squadre, vera e propria àncora di salvezza per chi i top 100 li guarda con la bava alla bocca. I più fort(unat)i riescono ad accaparrarsi anche qualche contratto all’estero, dove girano più soldi, ma le certezze sono spesso ridotte all’osso. Lo sa bene Matteo Trevisan, ex grande speranza, negli spogliatoi in accappatoio e ciabatte a discutere con un amico che abita in città e lo ospita a casa, facendogli risparmiare i soldi dell’hotel. È felice per la vittoria di qualche minuto prima, con tanto di toilet break nell’erba appena fuori dal campo (“Non farmi andare fino al bagno, tanto non mi vede nessuno”), ma appena esce l’argomento campionati a squadre il sorriso sparisce. Nel 2014 aveva lasciato le due squadre all’estero sicuro della riconferma, ma senza avvisarlo hanno sciolto sia quella austriaca sia quella tedesca. Una mazzata via l’altra nel giro di un mese, fuori tempo massimo per trovare nuove sistemazioni. Addio dunque a oltre un terzo dei suoi introiti stagionali e benvenuto ai tornei Open (utili per far cassa) e bentornate alle discussioni coi genitori, per quel conto in banca che galleggia fra segno più e segno meno manco fosse un indice della borsa di Milano. “Non ho nemmeno i soldi per cenare stasera, dovrò chiedere un anticipo del prize money”, se ne va scherzando. O forse no.

I Futures accolgono tennisti di ogni tipo: da quello di categoria superiore sceso in classifica per il tal infortunio, al giovane che il ranking lo sta scalando per la prima volta, fino a chi ormai ha capito che a quei livelli ci passerà l’intera carriera. E poi ci sono quelli che gli habitué del circuito chiamano ‘soci’, non gli affiliati del club dove si gioca il torneo, bensì amatori che non hanno ben chiaro il concetto di professionismo e nemmeno l’intelligenza per starci alla larga. Si tratta per lo più di miliardari, che in attesa di decidere cosa combinare nella vita si dilettano a fare i turisti col borsone, rimediando 6-0 a destra e a manca. Come Nicolas Leobold, franco-canadese sulla cinquantina, taglia XL e occhiali rosa di Hello Kitty, che si aggira per il Tc Lecco con due Head Extreme da incordare e una matassa di Luxilon sotto il braccio, nella speranza che la corda illegale secondo Andre Agassi renda legale il suo diritto da ‘ennecì’. O uno statunitense di origini italiane, al secolo James Giovannini, che di Andy Roddick ha preso i doppi falli e di Mardy Fish l’amore per i fast food. È arrivato dagli States fino a Lodi per giocare il suo primo Futures, ma invece di tornare a casa in aereo lo fa in bicicletta, dopo una quarantina di minuti scarsi passati a ridere fra un punto e l’altro. Tolte queste rare eccezioni, la vita è identica per tutti gli altri, fra lavanderie e piccoli bed & breakfast, senza allenatore al seguito perché costa troppo, senza giudici di linea, talvolta senza raccattapalle e di rado pure senza arbitro nelle qualificazioni. Paradossale, ma tutto vero. Per molti l’attività dipende dai risultati: arrivare in fondo a un torneo significa poter giocare anche la settimana successiva, garantirsi una chance in più per salire almeno nel purgatorio. Ma con una lista della spesa lunga così, nemmeno chi vince è sicuro di guadagnare qualcosa. Arrivare in fondo ai tornei significa incassare più soldi (1.440 dollari al vincitore), ma anche dormire più notti in hotel, mangiare più volte al ristorante, andare più volte in lavanderia, incordare più racchette. Alla fine il portafoglio è sempre vuoto.

Una situazione che sa di irreale per chi è abituato a vedere il tennis perfetto, quello delle tv, con i giocatori che navigano nell’oro scortati da scialuppe di coach, manager, fisioterapisti, psicologi. Nei Futures mangiano accanto a soci e spettatori, e lottano per qualche breve notizia nelle ultime pagine dei quotidiani di provincia.

Ma qual è la soddisfazione per cui vale la pena dannarsi l’anima?

Bisognerebbe chiederlo a quei due, Giacomo Oradini e il finlandese Patrik Niklas-Salminen, che al Tennis Club Lecco se ne sono dette di tutti i colori per un set, al turno decisivo delle qualificazioni. Forse abbagliati dagli spalti stranamente pieni, hanno dimenticato che in palio ci fossero zero punti e giusto quel centinaio di dollari garantito a chi raggiunge il main draw. Una missione compiuta nel match precedente da un altro azzurro, Jacopo Stefanini che si appresta a pranzare poco lontano, con le parolacce provenienti dal Campo 1 come musica di sottofondo. Siede con un amico, e riflette a lungo. Il dilemma? Optare per il ticket da 15 euro, con menù completo, o pagarne 10 e rinunciare a primo o secondo, ma compiere quella che per le sue tasche sponsorizzate da mamma e papà può diventare un’importante operazione di business? Sceglierà quello da dieci e proseguirà la missione-risparmio la settimana seguente a Lodi, suggerendo a due colleghi una tripla a 60€ (da dividere in tre) in un agriturismo, piuttosto che la stessa soluzione a 20 euro in più, ma in un hotel convenzionato a quattro stelle. A conti fatti sono 7€ scarsi risparmiati a notte, e fra un agriturismo e un 4 stelle ce ne passa. Ma non c’è nemmeno da pensarci. È pur sempre meglio del “Ciao, piacere, sono Pinco Pallino, ti va di dividere una doppia?”, che tocca fare ogni tanto, specialmente quando ci si trova all’estero e si socializza con chi capita. Importa zero se dall’altra parte del telefono c’è uno sconosciuto, conta solo risparmiare. La cosa giusta? Sì. La migliore? No. Perché per emergere bisogna investire, su se stessi e sul proprio staff. Ma bisogna anche poterselo permettere.

Quando in ballo ci sono i soldi, ovviamente, c’è pure chi ‘ci prova’. Come quel tennista dell’Est, lo slovacco Ivo Klec che sempre a Lodi si è presentato due volte al players’ desk a ritirare i 50€ di cauzione lasciati per le palle d’allenamento, discutendo animatamente quando gli è stato fatto notare che li aveva già ritirati in precedenza, prima di scusarsi per l’accaduto. Sbadataggine? Verrebbe da pensarlo se non fosse che proprio lui, nel giorno dell’eliminazione, si è presentato in tarda serata dall’incordatore a ritirare la propria matassa e saldare l’ultima incordatura, ma una volta appreso che il responsabile se n’era già andato, si è miracolosamente dimenticato dei 12€ da pagare, limitandosi a recuperare la corda. Mancava il terzo indizio per provarne la dubbia moralità, ma è arrivato qualche mese dopo, insieme alla radiazione da parte di Tennis Integrity Unit. E non certo per i 50€ contesi. Resta il fatto che se un giocatore è disposto a sporcarsi la faccia per così poco significa che ne ha bisogno davvero.

Lo conferma il caso di Josè Pereira, 24 anni dal Brasile, che a fine maggio si è fatto un paio di settimane dalle nostre parti. A Bergamo ha raggiunto la semifinale: fosse così tutte le settimane, a fine anno il conto piangerebbe un po’ meno. Ma quando ha scoperto che i 502 dollari guadagnati avrebbero subito una decurtazione del 30% (prevista per i giocatori stranieri), ha chiesto che ad accompagnarlo all’aeroporto fosse qualcuno del club, per risparmiare una trentina d’euro del taxi che aveva prenotato anzitempo. Un lusso che non si poteva (più) permettere.

È la vita dei Futures, dove – a differenza di un nome che sa tanto di illusione – il futuro lo vedono in pochi, gli altri vanno avanti per passione. Alla peggio si ricicleranno come maestri, mica in miniera. E se alla fine dei match capita di vedere i giocatori infilare nel borsone bottigliette d’acqua a raffica, non significa che stiano morendo di sete ma che, così facendo, le avranno gratis fino a sera. Due o tre euro risparmiati ogni giorno significa poter giocare un torneo in più alla fine dell’anno, magari quello giusto per uscire finalmente dal buio. Fare la fame è ben altra cosa, e alla stazione non ci dorme nessuno (o quasi, perché è capitato anche a dei futuri top 100), ma di garanzie non se ne vedono. Il sogno di vivere di tennis giocato lo accarezzeranno in pochi, pochissimi. Per gli altri sarà sempre un mondo di solitudine, che ti svuota psicologicamente. Perché nella solitudine l’uomo pensa, si fa delle domande. “Ho ancora voglia di dormire una notte sì e l’altra pure su un letto scomodo, di una piccola stanza, di un albergo qualsiasi?”. “Ho ancora voglia di dannarmi l’anima per qualche dollaro e davanti a quattro gatti?”. “Ho ancora voglia di mettere da parte tutto il resto per inseguire un sogno che probabilmente non raggiungerò mai?”. Tanti hanno ceduto, ma per molti altri la risposta è sempre la stessa. E il bello di ‘sto mondo è tutto in quel “”.

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POVERA DAVIS

[Reportage pubblicato nel numero di agosto 2015 di TennisBest Magazine]

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Coppa Davis Gruppo 3 a San Marino

“La Norvegia è più forte di quanto sembri, il numero 3 è stato 900”. Una frase sussurrata a bassa voce, in inglese, sulle tribune deserte del Campo Centrale del Centro Tennis Cassa di Risparmio, strada di Montecchio, San Marino. È la settimana del Gruppo 3 di Coppa Davis, zona Europea. Il quarto d’ora di gloria di quelle tredici nazioni dimenticate dal Dio della racchetta, che si trovano una volta all’anno in sede unica, a giocarsi i due posti per il raggruppamento superiore. Gente che la Davis vera la vede in tv come tutti i comuni mortali, e si stupisce di trovare in campo raccattapalle e giudici di linea. La formula è semplice: quattro gironi all’italiana, le migliori si affrontano in semifinale, le altre rimandano l’appuntamento all’anno successivo. Da qui non si retrocede. Per sveltire l’agonia ogni sfida ha tre incontri e non cinque, tutti in una giornata, tutti al meglio dei tre set. Così, capita che l’intero confronto Georgia-Albania duri 2 ore e 4 minuti: 6-0 6-0 al cubo e tutti a casa. In campo c’è anche Nikoloz Basilashvili. Ha appena raggiunto il terzo turno a Wimbledon dalle qualificazioni, e come premio la sua Federazione l’ha spedito sul Monte Titano. Nel 2007 giocavano il Gruppo 1 contro Djokovic e Tipsarevic, ora che potrebbero aver ritrovato un giocatore competitivo vogliono sfruttarlo per tornare su. “È la mia prima volta in Coppa Davis – racconta – e sono felicissimo di rappresentare finalmente il mio paese. In Georgia la gente si aspetta molto da noi, il tennis sta diventando più popolare e spero che il mio risultato a Wimbledon possa aiutare i giovani ad iniziare a giocare. Ha avuto grande risonanza, caricando anche la squadra in vista di questo impegno. L’obiettivo è tornare subito nel Gruppo 2”. Ce l’avrebbero fatta due giorni dopo, battendo per 2-0 l’Estonia di Jurgen Zopp, grazie anche al numero due Alexandre Metreveli. Il famoso boicottaggio del 1973 ha aiutato suo nonno ad arrivare in finale a Wimbledon, lui invece deve fare tutto con le sue mani. Ha appena vinto un paio di Futures, ma se Beppe Viola avrebbe barattato volentieri 37.2 di febbre a vita per la seconda di McEnroe, lui scambierebbe entrambi i titoli con il diritto del connazionale Giorgi Javakhishvili: condizione fisica da amante dei fast food e aspetto che metterebbe in allerta gli aeroporti di mezzo mondo (vedere foto sul profilo ITF per credere), ma braccio magico. Quando la impatta da fermo fa i buchi per terra, senza fatica, nella metà campo dell’islandese Birkir Gunnarsson, uno che i 38 gradi di Fonte dell’Ovo non li aveva mai visti prima, così come un coach in grado di dargli due dritte sul servizio. Seduto in panchina c’è suo fratello Magnus, con cui condivide i genitori e pure il numero di tornei internazionali giocati nella vita: zero. È lui il vero protagonista del match. Prima per l’outfit intelligente, felpa e pantaloni della tuta, poi per la decisione di improvvisarsi fotografo nel secondo set, quando nel bel mezzo di un game estrae l’iPhone per scattare delle foto al fratello. Forse non ci crede di trovarlo avanti 2-0, ma sei game più tardi gli torna tutto più chiaro. Scocca l’ora del numero due: Rafn Kumar Bonifacius, origini indiane, discreta somiglianza con Rafael Nadal e borsone Wilson di cinque anni prima. Troppi? Sempre meglio di quello che il borsone neanche ce l’ha, e si accontenta di due racchette, infilate nello zainetto a mo’ di ragazzino della Sat

Sul campo accanto gioca Genajd Shypheja, numero due della formazione albanese. Studia all’università sportiva di Tirana e sogna un futuro nel mondo dello sport. Qualche volta è finito anche in televisione, malgrado dalle nostre parti farebbe fatica a vincere un torneo di terza categoria. Aspetta di iniziare il riscaldamento, perché l’avversario si è presentato in campo con una t-shirt con sulla schiena sia la scritta Malta sia la croce simbolo del Paese. Il regolamento non lo permette e il giudice di sedia lo obbliga a cambiarla. Shypheja se la ride, anche se indossa la maglia di una marca e i calzoncini di un’altra. Rimarrà l’unico momento felice del suo incontro: 6-0 6-0 in 46 minuti, fra doppi falli, diritti lisciati e smorzate nel suo campo, tutto rigorosamente da quattro metri dietro la riga di fondo. Un vizio condiviso col connazionale Rai Pelushi, che ha addirittura una pagina Facebook da quasi 1000 fan, dove snocciola tutti i suoi risultati da under 12 a oggi. “Sono sicuro che con il duro allenamento, la mia potenza e il mio talento, rappresenterò l’Albania in tutti gli eventi del mondo”, scrive. Giusto un tantino ottimista. La sentenza ce la regala un giudice di linea all’uscita dal campo: “ha fatto sembrare l’altro un fenomeno”. Per la cronaca l’altro è Matthew Asciak, maltese, best ranking 887. Impossibile non chiedere un’opinione al capitano albanese, Fatos Nallbani, professore di educazione fisica con figlioletto al seguito. Non parla inglese, un suo giocatore gli traduce la domanda: “come ci si sente a capitanare una nazione senza giocatori nel ranking mondiale?”. Per la risposta non ha bisogno d’aiuto. Gli basta un gesto. Allarga le braccia, ed è sufficiente a render chiaro il pensiero: “È quello che passa il convento“. Chiuderanno al tredicesimo e ultimo posto, ma non sono i peggiori d’Europa. Nel ranking Andorra è un posto dietro, però non gioca da 3 anni.

Un centinaio di metri più in là, oltre il parcheggio e la Casa del Calcio, ci sono altri tre campi ricavati in una vallata. In corso i primi singolari di Liechtenstein-Montenegro e Norvegia-Armenia. Cade l’occhio sul numero due del Liechtenstein, al secolo Gian-Carlo Besimo. Ha 29 anni ed è all’esordio in Davis, ma sembra un attempato maestro di club, coi fantasmini al posto del classici calzini da tennis, e in pugno la Wilson K-Factor con cui Del Potro vinse lo Us Open. Sembra passata un’eternità. “Ma il primo set l’ha giocato bene“, racconta Ljubomir Celebic del Montenegro. Lui nel Gruppo 3 si è fatto tutta la gavetta: è entrato nel team di Davis nel 2010 e passo dopo passo, col ritiro degli altri giocatori, ne è diventato  il numero uno. “Da quando io gioco la Davis, credo che questo sia l’anno con il livello medio più alto”. Suo cugino Stevan Jovetic è emigrato a Manchester per difendere i colori del City e farsi ricoprire d’oro, lui invece ormai da qualche anno fa la spola fra le due sponde del fiume Oglio: vive a Palazzolo (Brescia) e si allena a Cividino (Bergamo). È lì che sta provando a costruirsi una carriera, perché in Montenegro l’organizzazione è troppo amatoriale. Basta vedere il presidente, in ciabatte e con una t-shirt che ne evidenzia l’amore per la buona cucina. Invece che sedersi in panchina preferisce una sedia nel parcheggio sopra i campi, dove le piante regalano qualche spiazzo d’ombra. E quando uno degli avversari dei gemelli Savelic, impegnati nel doppio, stecca una volèe elementare, lui scoppia a ridere e gli altri lo seguono. Mica significa che non ci tengano, anzi! Semplicemente sono abituati così. “Quando ci siamo trovati prima della partenza (tre ore di macchina da Podgorica a Tirana, poi aereo per Ancona, ndr) ci ha portato le tute, dicendo ‘questa è la stessa che usa Federer’. Peccato che sull’etichetta ci sia scritto football: è una tuta da calcio. Sai qual è il problema? Che lui lo pensa veramente”. Dopo anni di contratti stipulati a suon di paia di calzini omaggio, tuttavia, la situazione pare in leggero miglioramento. Ma i soldi non bastano mai. “Abbiamo appena scoperto che la cena non è a carico dell’organizzazione, e noi mangiamo in hotel da tre giorni: 22€ a testa per sei persone. A fine settimana saranno circa mille euro. È una spesa importante, un operaio medio in Montenegro ne guadagna 400 al mese. Stiamo decidendo chi deve andare a dirlo al presidente, appena lo scopre gli viene un coccolone. Per venire qui ci han dato 300 euro a testa, andrà a finire che le cene le pagheremo con quelli”.

Eppure, oltre al viaggio, la cena è l’unica spesa a carico delle nazionali. Al resto ci pensa l’organizzazione, che dopo il corteggiamento dell’ITF ha deciso di ospitare di nuovo la competizione. “Dobbiamo garantire ospitalità per cinque persone da lunedì al sabato – spiega Christian Forcellini, presidente della Federazione Sammarinese Tennis – oltre ai pranzi e a tutti i costi organizzativi, che comprendono arbitri, giudici di linea, trasportation e quant’altro. Il costo complessivo è di circa 60-70 mila euro”. Mica poco, ma in parte contribuisce l’ITF. “Danno una diaria di 40 dollari per atleta, per un totale di 35-40mila, ma ho fatto presente che in un paese come la Macedonia possono bastare per tutto, da noi coprono circa la metà delle spese. Diciamo che questo Gruppo 3 è una sorta di raggruppamento misto  che comprende professionisti ma anche dilettanti”. Ognuno, insomma, fa i conti con il movimento tennistico del proprio paese. “Il nostro? Purtroppo siamo ancora lontani dall’avere degli atleti professionisti, ma ci stiamo lavorando. Qualcuno ci è arrivato vicino, ma è sempre mancato un passettino”. Nel suo ufficio, all’interno del Centrale, è impossibile non scorgere i gagliardetti delle varie nazioni affrontate dal 1993, anno dell’esordio della Repubblica in Davis. “C’era ancora il quarto gruppo, con Europa e Africa insieme. Abbiamo fatto numerose trasferte in Africa, in condizioni estreme per il tennis, contro nazioni che si stavano affacciando a questo mondo. Sono state bellissime esperienze di vita, abbiamo toccato con mano la povertà di altri stati nemmeno troppo lontani, e ci siamo resi conto di quanto siamo fortunati ad avere una struttura come la nostra”.

Là sul Titano devono molto a Domenico Vicini. La sua è una di quelle storie che renderebbero orgoglioso Dwight Davis, il compianto fondatore dell’Insalatiera. Il Leone di San Marino ha 43 anni e nella vita gestisce lo storico campeggio di famiglia a Finale Ligure, dove si diletta a dare qualche lezione ai turisti nel campo del villaggio. Ma quando indossa la t-shirt biancazzurra della Repubblica si trasforma in una leggenda. Il sito della manifestazione parla chiaro: 93 incontri giocati, record assoluto, con tanto di premiazione nell’anno del centenario dell’ITF, in occasione della finale di Davis del 2013 fra Repubblica Ceca e Spagna. “Credo che gli spettatori nemmeno sapessero dell’esistenza di San Marino. Mi hanno chiamato in campo in mezzo ai grandi, Nicola Pietrangeli, Manolo Santana e non solo, davanti a un pubblico da stadio. Un’esperienza indimenticabile”. Un riconoscimento giusto per chi non ha mai saltato un singolo ‘tie’. C’era nel 1993, stagione dell’esordio di San Marino in Coppa Davis, e c’è ancora 22 anni più tardi, dopo aver collezionato sul passaporto i timbri di metà terzo mondo: Zambia, Costa d’Avorio, Senegal, Uganda. La sua vita è interamente legata alla Coppa Davis. “Fin da giovane – spiega – ho capito che è il massimo per un giocatore. Ogni volta è come se fosse la prima”. Oggi però si limita alla panchina e qualche doppio, la sua parte l’ha già fatta. “Ho tantissimi ricordi, a partire dal mio esordio assoluto, nel 1993 nello Zambia. Partimmo in otto, quattro giocatori, capitano, presidente, allenatore e un giornalista. La notte prima del match non riuscii a chiudere occhio dalla tensione. Giocammo in un campo di fango pressato, con righe di gesso e senza reti attorno. Ai lati del campo c’erano solo dei mucchi di paglia, per non far allontanare troppo le palline. Da umile B3, battei un giocatore sloveno con ranking ATP, 6-4 al terzo. L’esperienza più difficile però è stata in Costa d’Avorio, all’equatore, col sole perpendicolare al campo. A ogni cambio di campo dovevo sostituire polsini e grip, il cemento bolliva, bisognava stare attenti a non cadere per evitare scottature. Anche lì battei qualche giocatore più forte di me. Magari da altre parti ci avrei perso, ma in quelle condizioni mi esaltavo”. E la vittoria più bella? “Nel ’95 qui a San Marino, sul Centrale, contro il numero 1 greco Solon Peppas (che poi sarebbe arrivato nei primi 150 del mondo, ndr). Grecia-San Marino 1-1 dopo i singolari, incredibile, ricordo ancora l’esplosione del pubblico dopo il match-point vincente”. Pur essendo un piccolissimo stato con solo 22 anni nella competizione, San Marino alla Coppa Davis ha dato tanto. Oltre al record di Vicini, ne vantano altri due: il giocatore più giovane, Marco De Rossi, schierato nel 2011 a 13 anni e 319 giorni (e oggi numero uno della formazione), e il più anziano, Vittorio Pellandra, che ha esordito addirittura a 66 anni e 104 giorni. “È successo nel 2007 in Egitto”, racconta ancora Vicini. “Siamo partiti solamente in due giocatori, ma per iscrivere la squadra ne serviva un terzo. Così abbiamo inserito Vittorio, al tempo vice presidente della Federazione. Io e William Forcellini eravamo distrutti dopo un’intera settimana a giocare singolare e doppio, così l’ultima giornata l’abbiamo invitato a giocare. Poi abbiamo scoperto del record”.

A San Marino c’è anche Marcos Baghdatis, ex numero 8 del mondo e finalista all’Australian Open, ancora fra i top 50. Il suo conto in banca, da solo, supera quello di tutti gli altri quaranta giocatori presenti alla competizione. “Papà, ma Baghdatis che è 50 del mondo che ci viene a fare qua? Li batte tutti”, chiede un bambino al padre, mentre pranzano insieme. Spiegaglielo tu che è nato a Cipro, e se si guarda indietro trova un burrone. Per questo gli tocca il Gruppo 3. Capita di trovarlo nel campo di calcio adiacente al tennis a fare atletica, sbuffando fra una ripetuta e un’altra. “Ha anche giocato mezz’oretta”, racconta più tardi un raccattapalle, evidentemente al corrente della sua ‘relazione complicata’ con l’allenamento. La situazione si ristabilisce a metà pomeriggio, quando ai tavolini del bar, insieme ai connazionali, rovina tutto con mezzo litro di Franziskaner gelata. “Quanto è difficile passare dai migliori tornei del mondo a una Davis con tanti giocatori senza ranking? Non ci faccio caso. Non guardo gli avversari – spiega – io voglio solo aiutare il mio Paese. Il tennis a Cipro non è messo male, ma può crescere ancora. La Federazione può fare di più, il governo può aiutarla di più, e i coach potrebbero svolgere un lavoro migliore. Comunque piano piano stiamo crescendo, il numero 2 (Petros Chrysochos, ndr) è 500 al mondo. Dopo il ritiro mi piacerebbe fare qualcosa per qualche giovane, ma devo guardare anche a me stesso e alla mia famiglia”. Con la sua aria da turista col codino, più adatta a qualche locale di Viale Ceccarini, Baghdatis vanta 32 vittorie di fila in singolare in Davis, solo una in meno del record assoluto di Bjorn Borg. E fa niente se l’unico top 100 battuto è Jarkko Nieminen, la statistica rimane invariata. “Sì, so di essere vicino al record, ma non ci penso. So i risultati ottenuti nella mia carriera, so che il record mi darebbe qualcosa in più, ma la priorità in questo momento è la qualificazione del team per il Gruppo 2”. Vero, se solo non fosse che avrebbe potuto centrarli entrambi in una sola settimana, invece si è limitato a giocare un doppio contro la Grecia. In singolare non è sceso in campo nemmeno nel match-promozione con la Norvegia, così sarà Gruppo 3 anche nel 2016.

Sorridono i nordici, che si prendono una piccola rivincita contro gli dei del tennis. Ma la strada è ancora lunga e tortuosa. La Svezia ha avuto alcuni fra i migliori giocatori della storia, la Danimarca ha Caroline Wozniacki, e qualche raggio di sole è arrivato pure in Finlandia. Ma da loro no. Hanno la nuvola di Fantozzi: solo pioggia. L’unico giocatore degno di nota è stato Christian Ruud, numero 39 del mondo nel 1995, ed è proprio lui a tirare le somme, dopo un’oretta di atletica sotto un sole cocente, mentre Oystein Steiro si diverte a tirare (bene) qualche punizione nel campo da calcio dell’impianto. “Sì, sono stato il migliore di sempre”, dice con un po’ di amarezza, forse dispiaciuto per non aver lasciato qualcosa di tangibile. Non è il capitano ma il coach, di un team che comprende anche suo figlio Casper. “Da noi la gran parte della gente scia o gioca a calcio, è difficile trovare un buon numero di ragazzi da cui provare a tirare fuori un campione. Serve anche maggiore formazione dei coach, così come delle strutture migliori. Ci stiamo provando, qualcosa si muove. Abbiamo qualche ragazza interessante, e anche negli uomini va meglio degli anni scorsi. Durasovic è fra i primi 500 del mondo a 18 anni, mentre mio figlio ha raggiunto la semifinale in doppio a Wimbledon juniores. Speriamo che insieme riescano a fare qualcosa di importante”. Una missione a cui probabilmente ha rinunciato quel giocatore che si gode una sigaretta nascosto in un angolo del Centrale, sperando non lo veda nessuno. Obiettivo fallito, ma genuinità ai massimi livelli, come dovrebbe essere in una manifestazione così. Invece, basta dare uno sguardo a Bet365 per capire che la piaga delle scommesse è arrivata fino a lì, persino se in campo c’è un dilettante. “Che il tuo avversario vincesse due game era dato a otto”, si riesce a origliare da una chiacchierata fra due giocatori. “Ah sì? Avrei fatto fatica a farglieli fare”. In effetti, ha vinto 6-0 6-1, lasciando quel game che sa di regalo e fugando ogni dubbio sulla regolarità dell’incontro. “Non ho mai giocato un euro in vita mia, nemmeno sul basket o sul calcio, figuriamoci se mi metto a giocare una mia partita”. Anche se l’avesse fatto non l’avrebbe ammesso, mica è scemo, ma viene spontaneo credergli e non andare oltre, dopo quell’ultimo quesito che rimane senza risposta. “Ma in caso di 6-6 al terzo è previsto il tie-break?”. “Non lo so. Se vuoi chiedo”. “Tranquillo, va bene così”.

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46 TORNEI IN UN ANNO. IN CAMPER.

Gonçalo Oliveira, portoghese classe 1995, gira l'Europa in camper col padre, sognando i top-100

Gonçalo Oliveira, portoghese classe ’95, gira l’Europa in camper sognando i top-100

[Articolo pubblicato su TennisBest il 27 marzo 2016]

Il portoghese Gonçalo Oliveira ha 21 anni e da un paio gira l’Europa in camper col padre, dividendosi fra Futures (tanti) e Challenger (pochi), per inseguire il sogno top-100. “È impegnativo, ma non mi stanco mai”. Nemmeno dopo 27 tornei consecutivi.

SONDRIO – “Una foto? Aspetta, vado a prendere una felpa dello sponsor. Facciamoli contenti”. In effetti, è già tanto che uno come Gonçalo Oliveira ce l’abbia uno sponsor, dall’alto (si fa per dire) della sua 528esima posizione nella classifica ATP. Risultato più che rispettabile, ma che nel crudele sistema tennis significa tornei Futures, quindi zero guadagni per chi è fortunato, bilancio in rosso per tutti gli altri. Il ventunenne portoghese è uno di loro, quelli che sgomitano anni e anni rincorrendo un sogno che la gran parte non accarezzerà mai, chi perché non ha i mezzi tecnici, chi la testa, chi la voglia di farsi un mazzo tanto da mattina a sera, oppure di stare mesi e mesi lontano da casa. Non pare il caso del mancino di Porto, che pur di fare il tennista ha messo da parte tutto il resto, e la casa se la porta dietro ogni settimana, sulle ruote del camper che ha acquistato un paio d’anni fa. Alla guida c’è papà Abilio, ex giocatore professionista che gli fa da coach, manager, psicologo, fisioterapista. “Tutto tranne la fidanzata”, scherza lui. Insieme girano l’Europa settimana dopo settimana, provando a scegliere i posti migliori dove giocare. La prassi è sempre la stessa: cercano una zona vicina al circolo e ci fissano la residenza temporanea, sperando di rimanerci il più a lungo possibile. L’anno scorso l’hanno fatto per 27 tornei consecutivi, 46 in 52 settimane. Un record? Probabile. “Ma a volte magari ho perso al primo turno, quindi sono rientrato a casa per qualche giorno”, confessa sorpreso, quasi non si fosse accorto di averne giocati così tanti. Ci si stanca? “No, mai. È impegnativo, ma sono una persona solare, cerco sempre di guardare gli aspetti positivi. E poi più gioco, più cresco. È il motivo per cui sono qui”.

UNA QUESTIONE DI COMODITÀ
Quella dei tennisti che girano in camper non è una novità assoluta. Ci è passato pure Dustin Brown, la cui storia è diventata molto popolare dopo la vittoria su Nadal a Wimbledon. Facile immaginare da chi abbia preso spunto Oliveira. Invece no. “Me l’ha consigliato uno spagnolo, Marcos Giraldi Requena (un altro come lui: gira col padre ed è intorno ai primi 500, ndr), e ho pensato subito fosse una buona idea. Certo, non puoi permetterti un investimento come questo e poi mollare tutto l’anno dopo. Devi essere disposto a farlo a lungo”. Nell’area camping di Sondrio, casualmente piazzata proprio accanto al Tennis Club (dove l’abbiamo incontrato, impegnato nel locale torneo Futures), di camper ce ne sono quattro o cinque, il suo Knaus è decisamente il migliore. “È costato 80.000 euro, è completamente automatizzato. Ci sto parecchio tempo, non potevo comprarne uno qualsiasi”. Si deduce che la scelta del camper non è stata dettata (solo) dall’aspetto economico, quanto da una serie di comodità e vantaggi. “Mi posso portare un sacco di materiale che trasportare in aereo sarebbe complicato, poi posso dormire ogni notte nel mio letto, che non è cosa da poco. In certi hotel si pagano cifre importanti ma sembra di dormire per terra, meglio evitare”. E poi, quando si sveglia lui è già al club, quindi niente transportation, meno tempo perso. “È come giocare sempre a casa, e si risparmiano anche dei soldi. Sarebbero ancora di più se cucinassi, ma poi mi toccherebbe andare all’ospedale. Meglio il ristorante (ride, ndr).Se lo consiglierei? Sì, ma devi esserne predisposto. La vita nei tornei Futures è già difficile di per sé”.

“DI SOLDI NON SE NE VEDONO”
A sentirlo sembra tutto rose e fiori, ma girare in camper, per un europeo, ha anche degli svantaggi. Significa dover giocare sempre dove il livello è più alto, dove raccogliere punti è più complicato. “Vero. Ma per migliorare bisogna affrontare i più forti. Per questo quando posso gioco le qualificazioni nei Challenger, per testare il mio livello, capire cosa mi manca. È inutile che vada in India a fare punti se poi quando torno in Europa perdo al primo turno. Se si vuole arrivare nei primi 100 la strada è questa”. La sua è ancora lunga, ma Gonçalo non dispera. “Quest’anno punto a giocare le qualificazioni nei tornei del Grande Slam. Magari già allo Us Open: per farcela devo vincere tre Futures”. Mica facile per chi in quattro anni da ‘pro’ ne ha vinto uno solo. “Ogni stagione è più complicato. Dall’inizio del 2016 l’ATP ha ridotto a 16 partecipanti le qualificazioni dei tornei maggiori, significa che ogni settimana ci sono almeno 16 giocatori più forti nei Challenger, e di conseguenza 16 giocatori più forti anche nei Futures”. Ed è un bel problema, perché vincere meno partite significa incassare meno denaro. “Qui è così, per guadagnare qualcosa bisogna arrivare fra i primi 200. A questi livelli magari si riesce a non pagare l’attrezzatura grazie a qualche sponsor, ma di soldi non se ne vedono”. Secondo il sito ATP, nel 2015 ha incassato circa 13.000 dollari lordi, quando una stagione completa può arrivare a costarne oltre il quadruplo. Significa che il resto, con una Federazione che non lo può aiutare (“fanno il possibile, ma di soldi non ne hanno”), grava tutto sulle casse della famiglia. Come le rate del camper. Un investimento vincente? Per il momento solo coraggioso. Ma vuoi mettere tornare a casa ogni sera, in Francia, Spagna o Italia che sia?

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FOREVER YOUNG

Angelo Sala, 88 anni, numero uno al mondo fra gli Over 85

Angelo Sala, 88 anni, numero uno al mondo fra gli Over 85

[Storia pubblicata nel numero di ottobre 2015 di TennisBest Magazine]

Secondo le Pagine Bianche, a Palazzolo sull’Oglio c’è un solo Angelo Sala: impossibile sbagliare. Il telefono di casa squilla. Risponde una signora anziana, lo si capisce dalla voce sottile. “Angelo Sala, il tennista? Sì, glielo passo subito”. Qualche telefonata dei giornalisti non sorprende più, da quando nel 2011 il marito è diventato numero uno al mondo e poi si è preso una manciata di titoli mondiali. Categoria Over 85, la più anziana. All’ITF li definiscono Super-Seniors, e Sala è il più anziano fra i numeri uno, con la grinta di un ragazzino. Ricorda alla perfezione anni, tornei, avversari, persino i punteggi. Cosa che il 99% dei professionisti ATP nemmeno si sogna. “Mi starei preparando per i Campionati mondiali – ribatte alla richiesta di un appuntamento – però uno spazio lo possiamo trovare”. Il prossimo 18 dicembre compirà 89 anni, ma invece di godersi la pensione fra una pennichella sul divano e un aperitivo nel bar sotto casa, preferisce essere l’unico tennista italiano numero uno al mondo. Gli avversari? Il ranking over 85 parla di 68 giocatori, mica pochi se si considera l’età. Il più anziano è il polacco Eugeniusz Czerepaniak, nato il primo giorno di gennaio del 1921, ma fra i top 20 nessuno è nato prima di Sala. Fisicamente è perfetto, nonostante un paio di tumori abbiano provato a rovinargli i piani. Ha perso prima mezzo polmone e poi addirittura un rene, ma non la voglia di allenarsi, quasi ogni giorno al Tennis Club Palazzolo. Lo troviamo sul Campo 4, insieme a un amico che si presta al ruolo di sparring. Mister Sala (come lo chiamano da quelle parti) si muove benissimo, il ritmo degli scambi non è affatto male. E pensare che non ha mai preso una lezione di tennis, e la prima racchetta l’ha impugnata intorno ai 70 anni. Al tempo, di palline e terra rossa nella sua vita non c’era traccia, poi è cambiato tutto, fino alla consacrazione mondiale: cinque ori in quattro anni, dal 2011 al 2014. Più due argenti e un bronzo nell’ultima edizione, appena terminata in Croazia.

È l’unico italiano numero uno al mondo, fra giovani, professionisti, veterani e tennisti in carrozzina: si sente un esempio?
Assolutamente no. Per me è tutto normale, non credo di aver fatto nulla di straordinario. Mi sento esattamente uguale a prima, montarsi la testa a 88 anni sarebbe un po’ strano, no? Talvolta nei tornei capita che mi chiedano il curriculum. Il curriculum? Ma quale curriculum? Se mai ho il record di partite giocate in Serie C con il Palazzolo, 250. Ma di calcio, mica di tennis.

Calcio?
La gente si stupisce quando lo racconto, ma la mia vita è sempre stata il calcio, da quando è finita la guerra nel 1945 fino al 2011. Da giocatore e poi da allenatore, prima di varie squadre in provincia e poi anche dei ragazzini all’oratorio. Ho dovuto mollare a causa del tennis, alla domenica mancavo troppo spesso. Ma la mia grande passione rimane il calcio, lo seguo di più rispetto al tennis. Se smetterò di giocare mi piacerebbe tornare ad allenare i bambini. Hanno bisogno di gente che li segua.

In mezzo a tutto questo calcio, il tennis da dove sbuca?
Ho iniziato intorno ai settant’anni, credo fosse il ‘96 o il ‘97. È bastato un cancellino, che al tempo separava il Tennis Club Palazzolo dal campo da calcio dove allenavo. Giocavano sempre dei miei amici, e talvolta quando mancava il quarto per il doppio capitava che mi invitassero. Così, appena finito coi ragazzi attraversavo il cancellino e andavo a giocare a tennis.

E l’idea di disputare i tornei internazionali?
È stato un caso. Una volta ho accompagnato questi miei amici in Liguria, per giocare un torneo dell’Aivat (Associazione Italiana Veterani Amatori Tennis, ndr). Un giorno, nell’attesa, sono sceso in campo anche io, per una partitella con un signore del posto. Giocava tornei internazionali, e al termine mi chiese perché non li facessi. Non sapevo nemmeno cosa fossero, per me l’ITF era un mistero. Mi ha spiegato come funzionava, e quando sono tornato a casa, ho iniziato a informarmi. Ricordo che un maestro dell’Accademia Vavassori mi stampò oltre 80 pagine di calendari, regolamenti e quant’altro. Man mano ho iniziato a giocare, scegliendo i tornei più adatti a me insieme a Renato Vavassori, che da ragazzo era stato mio allievo nella squadra di calcio. Ho giocato il mio primo torneo internazionale nel 2001, a Cervia, e da lì è partito tutto. Poi ho iniziato anche ad andare all’estero. Ho un pc, ho imparato a muovermi su Internet. Guardo i calendari, mi iscrivo ai tornei, gestisco tutto da solo.

Quanto si allena un tennista di 88 anni?
Vengo al Tennis Club Palazzolo ogni giorno, sabato e domenica compresi. Capita raramente che salti qualche giovedì. Se non faccio un’ora e mezza o due al giorno, poi ci rimetto. Cerco di alternare: oggi singolare, domani doppio, sempre con degli amici. Uno è il mio incordatore di fiducia, ha trent’anni meno di me. In base a come gioco contro di lui, capisco se sono in forma o meno. Perché è fondamentale arrivare ai tornei nella condizione giusta. Diciamo che seguo un allenamento di stampo calcistico, in base alla mia esperienza. Cerco di allenarmi al massimo a metà settimana, poi vado calando. E soprattutto mi alleno solo a cavallo del mezzogiorno, perché ai tornei si gioca sempre fra le 10 e le 14.

Sappiamo che ha subito anche due operazioni mica da ridere…
Già. Sono stato fermo per due periodi. Il primo nel 2003-2004, quando a causa di un carcinoma mi hanno asportato una parte del polmone destro. Fortunatamente il medico, sapendo che giocavo a tennis, ha eseguito un intervento meno invasivo di quello convenzionale, e ho potuto riprendere. Poi mi sono fermato anche nel 2006. Mi sentivo stanco, mi mancava l’appetito, e dalle analisi notarono qualcosa di strano a un rene. Non sembrava nulla di grave, ma mi consigliarono comunque l’operazione e alla fine si rivelò un tumore. Così mi hanno asportato il rene intero. Sono stato fermo sei mesi e fino a un paio d’anni fa mi sono dovuto controllare continuamente, ma ora mi hanno dato il via libera. Devo solamente stare attento all’alimentazione, per non caricare troppo l’unico rene rimasto. Devo evitare il più possibile le proteine e assumere delle pastiglie che bilanciano alcuni valori. Ma sto bene e non ho più alcun problema. Anzi, mi hanno appena tolto un carcinoma al naso, ma qualche ora dopo l’operazione ero già in campo.

L’aspetto più difficile per un Super-Senior?
Io fisicamente sto benissimo, quindi secondo me, anche ai nostri livelli, l’aspetto che conta di più è quello mentale. Capita che ci siano giocatori agitati, che in partita accusano la tensione. Io invece sono sempre tranquillo, sto facendo una cosa normale. Il tennis non è un’ossessione: non guardo troppo al risultato. Non faccio come i calciatori che corrono ad arrampicarsi sulle reti (ride, ndr). Mi ricordo che due anni fa a Umago un cileno vinse il mondiale nella sua categoria e c’erano trenta persone a festeggiarlo in campo, con bandiere e quant’altro. Io sono molto più tranquillo, nella vittoria e nella sconfitta.

Come si svolge la sua stagione?
Non gioco molti tornei. Essendo un semplice pensionato i soldi sono quelli che sono, devo stare attento alle spese. Ogni anno penso a un piccolo budget per i tornei e non lo devo sforare. L’aspetto positivo, nel mio caso, è che il ranking è composto appena da quattro tornei. Uno può giocarne quanti ne vuole, ma in classifica ne entrano solo quattro. Quindi è meglio farne pochi ma fatti bene. Al momento ho il massimo punteggio possibile: 840 punti, frutto di tre vittorie nei tornei di Grado 1, che danno 180 punti ciascuno, e quella al mondiale dello scorso anno, 300 punti. Quest’anno ho giocato l’europeo indoor a Seefeld, quello outdoor a Poertschach, e poi il campionato austriaco. Li ho vinti tutti.

I tornei hanno un montepremi?
Quelli del circuito no, mentre ai mondiali sì: mille dollari per il vincitore del singolare e 800 da dividere in due per la coppia campione di doppio. Almeno in quei casi si riesce a coprire le spese, altrimenti per uno come me diventa difficile. Infatti i giocatori sono quasi tutti ex professionisti: tennisti, medici…

Come fa a vincere sempre?
Ho pazienza e uso la testa. La prima mezz’ora di ogni match la passo spesso a osservare come gioca l’avversario, non bado molto al punteggio. Ho l’esempio giusto: quest’anno a Seefeld ho giocato in finale contro Jean Desmet, numero uno del Belgio. Si giocava sulla moquette, non ero abituato. Non riuscivo a prendere il tempo e sono finito sotto 5-0. Poi ho iniziato a prendere le misure e ho vinto 7-5 6-1. E lui è stato un ex tennista.

Capita spesso di affrontare ex giocatori?
Sì, anche gente che ha giocato la Coppa Davis. Lo scorso anno in doppio ho incontrato gli statunitensi Hugh Stewart e Frederick Kovaleski, che tanti anni fa a Montecarlo giocarono contro i due italiani forti che c’erano all’epoca… ehm…

Pietrangeli e Sirola?
Esatto. Questo vuol dire che erano professionisti di alto livello.

Che giocatore è Angelo Sala?
Nella gran parte degli incontri devo cercare di far muovere l’avversario il più possibile, variare, giocare delle smorzate. Non posso dare la palla sulla racchetta, altrimenti gli altri la mettono dove vogliono. La mia fortuna è che nessuno si muove come me, è per quello che riesco a vincere. Anche se mi tocca sempre sudare sette camicie, specialmente al primo turno. Se riesco a superare quello poi la situazione migliora.

Qualche segreto?
Faccio una cosa molto particolare. Ho due racchette Prince che mi hanno regalato in Accademia, e poi ho un paio di Head Prestige che mi hanno dato sempre loro. Erano di Bolelli ai tempi in cui si allenava qui. Le Prince sono come la Formula 1, le Prestige sono il muletto. Inizio quasi sempre con la Prestige, pesa quasi 370 grammi, la uso per scaldarmi. Poi quando sono pronto passo alla Prince, che pesa sui 310. Tensione 21/22 kg, ho provato anche 22/23 kg ma non sento la racchetta. Utilizzo solamente il budello. Con quello chiudo gli occhi e la palla va. Quando inizia a scappare, è ora di tagliare.

Nel dicembre del 2016 compirà 90 anni, ma la categoria over 90 a livello ITF non esiste…
C’è solo negli Stati Uniti. In Europa purtroppo ci si ferma all’over 85. In Italia è ancora peggio. Io ho la tessera FIT da over 75. Oltre non si va. Peccato. Mi piacerebbe arrivare a 90 anni in campo, poi si vedrà.

Che clima si respira ai tornei internazionali per veterani?
C’è un fair play notevole, specialmente dopo una certa età. Magari nelle categorie fino ai 50 anni ci sono ancora delle discussioni, anche perché le velocità di gioco sono maggiori, ma più avanti no. Ho conosciuto un sacco di persone splendide, gente che gioca per passione. Non ho mai avuto problemi con nessuno. Ci si conosce più o meno tutti, durante il giorno mi piace vedere gli incontri, girare… Capita che lo stesso torneo si giochi in più circoli, perché ci sono tanti tabelloni. Non è sempre come ad Antalya, in Turchia, dove ci sono 59 campi in un solo posto. Quando arrivi ti danno la mappa del club, altrimenti ti perdi.

È vero che tutti la vorrebbero come compagno di doppio?
È capitato, mi ha chiamato un australiano, poi un americano e altri, ma non avendo la possibilità di andare dalle loro parti preferisco avere un compagno più vicino. Al momento gioco col russo Michael Novik, ha un anno meno di me. Lui parla solo russo, io parlo solo bresciano, ma ci capiamo lo stesso.

Come si fa a essere ancora in campo a 88 anni?
Il segreto è la testa, se funziona quella, funziona tutto. Io sono completamente autonomo. Ai tornei nel raggio di 500 chilometri ci vado in macchina. Ho appena rottamato la mia Alfa 146 dopo vent’anni di servizio. Mia figlia aveva un’auto che usava pochissimo, così l’ho presa io e la userò per la trasferta in Croazia. Ho fatto due conti: da Palazzolo a Umago ci sono 450 chilometri, se mi metto in macchina alle 9 dovrei arrivare per le 14. Ovviamente altre volte tocca usare l’aereo. Un paio d’anni fa ho fatto anche una puntata negli Stati Uniti. Mi invitò Hopp, un americano che non sono mai riuscito a battere (e da cui avrebbe poi perso in finale al Mondiale, n.d.r.), è il più forte di tutti. Giocai un torneo in North Carolina, dove ero già stato un paio di mesi da ragazzo, per lavoro.

Viaggiava per lavoro?
Generalmente no, ma quella volta mi mandarono negli Stati Uniti per visionare dei disegni e dei materiali. Ho lavorato tutta la vita per la Marzoli, una ditta che produce macchine tessili. Ho iniziato a 15 anni, durante la guerra. Fui esentato per una serie di motivi: innanzitutto ero capofamiglia, mio padre morì quando avevo 9 anni, quindi dovetti andare a lavorare per forza. Poi al tempo l’azienda produceva anche materiale bellico, avevamo un permesso speciale, e infine nel ’44 convocarono i nati nei primi sei mesi del ‘26, quelli appena maggiorenni. Io sono di dicembre. Sono stati comunque anni difficili. Ho patito la fame, fortunatamente lavorava con noi il nipote di un fornaio, che al mattino ci portava dei panini. Altrimenti avevamo diritto a un solo pane al giorno. Ricordo che la sera andavo a raccogliere di nascosto le spighe di frumento nei campi, le portavo al mulino dove in cambio mi davano della farina, che portavo al fornaio per avere un po’ di pane. Ho visto tutti i bombardamenti, ho visto dei miei amici non tornare più. Ci si chiedeva come mai succedessero certe cose. Sono esperienze che lasciano il segno.

E sua moglie? La accompagna ai tornei?
No, lei preferisce la pallavolo. Anche il calcio non è che le piacesse particolarmente. Quasi tutti i giocatori sono accompagnati, chi dalla moglie, chi dai figli, ma stare una settimana al circolo, per chi non gioca, diventa stancante. Vedo donne che lavorano a maglia sugli spalti, altre totalmente disinteressate al torneo del marito. Per questo preferisco andarci da solo. Non voglio obbligare nessuno a seguirmi.

Cosa pensano le sue figlie e i suoi nipoti di avere un padre/nonno campione del mondo?
Sono tutti felici. Le mie figlie non sono grandi appassionate di tennis, ma so che mettono le mie foto su Facebook. Non so bene come funzioni, ma mi fa piacere.

Alla sua età si può migliorare?
Nel mio caso sì. Ho imparato tardi, non ho mai preso una lezione di tennis, perciò osservo gli altri giocatori e cerco sempre di imparare. I primi due o tre anni il mio unico allenatore è stato la macchina lanciapalle. Andavo all’Accademia Vavassori a mezzogiorno, quando i ragazzi erano a pranzo, e stavo oltre un’ora a colpire palle. Due dritti, due rovesci, due volèe. Ho imparato così, e seguendo il mio istinto da calciatore. Giocavo da stopper, il mio compito era anticipare l’attaccante. Così cerco di fare la stessa cosa nel tennis: giocare dentro al campo. Più vado avanti e meglio gioco. A volte esagero, mi trovo la palla nei piedi. Ma pazienza, sono un tipo istintivo.

A 88 anni si hanno ancora dei sogni?
Più che avere dei sogni, mi godo la soddisfazione di saper ancora fare bene qualcosa di bello. Se mi guardo in giro, vedo gente della mia età che cammina col bastone, altri che passano le giornate al bar a giocare a carte, altri chiusi nelle case di riposo. Allora mi accontento. Sono felice di essere ancora un tennista.

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IL BIOLOGO CHE SFIDA I TOP-100

Francesco Borgo, 30 anni, è laureato in biologia ma fa il tennista

Francesco Borgo, 30 anni, è laureato in biologia ma fa il tennista

[Intervista apparsa martedì 24 novembre su TennisBest]

IL PERSONAGGIO – A 30 anni, con una laurea in biologia molecolare (e un’altra in arrivo), un’associazione sportiva di proprietà, alcuni allievi e un grande sogno, Francesco Borgo si è trovato a esordire in un Challenger contro Stakhovsky. E ha fatto pure una gran figura.

BRESCIA – Scorrendo il tabellone del Trofeo Città di Brescia della scorsa settimana, infarcito da una quindicina di giocatori con trascorsi da Top-100, agli occhi degli appassionati del circuito ATP Challenger è balzato un nome nuovo: Francesco Borgo. Un giovane emergente? Altroché. Semmai un esemplare unico o quasi, che nel 2011 ha mollato un dottorato da biologo molecolare per inseguire il sogno tennis, buttandosi nel circuito internazionale intorno ai 25 anni. Tardi, tardissimo, ma non per chi l’ha scelto come fase di un percorso di formazione, da completare con una seconda laurea in arrivo e le prime esperienze da allenatore, e ha comunque trovato il tempo e il modo per togliersi più di una soddisfazione. Principalmente in doppio, con 14 titoli Futures e un posto fra i primi 300 del ranking, ma anche in singolare. L’ultima proprio a Brescia. Ha perso al secondo turno delle qualificazioni, ma una lunga serie di ritiri gli aperto le porte del tabellone principale, come lucky loser. E la sorte gli ha regalato una sfida con l’avversario più importante mai incontrato: l’ucraino Sergiy Stakhovsky. Da una parte il numero 62 del mondo, con quattro titoli ATP in bacheca e una storica vittoria contro Roger Federer sul Centrale di Wimbledon; dall’altra lui, numero 921, che per fare il suo esordio a livello Challenger è stato costretto ad annullare il corso pomeridiano a delle piccole allieve. Il bello del tennis è anche questo.

Scorrendo la tua scheda, si nota subito che sei entrato nel ranking ATP solamente a 25 anni. Da dove sei sbucato?
Ho giocato a tennis sin da piccolissimo, mio padre è maestro di tennis e ha allenato anche qualche buon giocatore. Ho giocato insieme a lui a fasi alterne, da under 12 ero fra i migliori d’Italia, ma non avrei mai pensato che il tennis potesse diventare la mia professione. A 19 anni ero terza categoria, e siccome andavo bene a scuola, dopo il liceo ho deciso di iscrivermi all’università, spinto da mia madre che fa la professoressa. Ho studiato e mi sono laureato in biologia molecolare a Padova, con una tesi sullo studio di due geni implicati nella risposta allo stress, per creare nuove molecole antidepressive.

E come mai ti troviamo con la racchetta e non col camice?
Nella mia vita il tennis è sempre stato in secondo piano, ma allo stesso tempo non sono mai riuscito ad abbandonarlo. Mi sono mantenuto l’università facendo tantissime lezioni private al sabato e alla domenica, e anche negli anni degli studi ho continuato a giocare tornei Open, specialmente d’estate, salendo di classifica passo dopo passo, fino a quando un circolo di Padova mi ha proposto di allenarmi un po’ di più e provare a fare il professionista. Visto che avevo raggiunto una buona classifica nazionale, mi sono detto: “si vive una volta sola, perché non provare?”. Così finiti gli studi mi sono preso un anno per il tennis, per allenarmi e pensare esclusivamente a quello.

A quanto pare gli anni sono diventati qualcuno in più…
Sono successe varie cose. Per primo, dopo pochi mesi mi sono scheggiato una rotula, ma invece di operarmi ho trascinato il problema curandolo a suon di antiinfiammatori, i cui effetti collaterali mi hanno creato un po’ di ansie, etc. Malgrado abbia chiuso quell’anno fra i primi 1.000 della classifica, non l’ho vissuto molto bene. Così, ho deciso di operarmi e provare un’altra stagione. A quel punto, mi ha contattato una professoressa che cercava un laureato in biologia molecolare per un dottorato, con borsa di studio. Non sapevo cosa fare, ma ho deciso di accettare. Speravo di riuscire a far conciliare tennis e dottorato, ma era impossibile perché pretendevano una presenza fissa in laboratorio. Quindi dopo poco ho deciso di prendere sei mesi di sospensione, e non ho più ripreso. Non era la mia strada.

Ti sei mai pentito?
Nella mia vita non ho rimpianti, ho sempre fato un sacco di cose diverse. Potrebbe essere vista come un’abilità, nel senso che sono riuscito a fare tante cose, oppure come una debolezza, perché non sono mai riuscito a concentrarmi al 100% su una sola. Ma sono fatto così, e ne sono felice. Chiusa quella porta ne ho aperta un’altra: mi sono iscritto a Scienza Motorie per completare la mia preparazione. Ho deciso che voglio rimanere nell’ambiente tennis, dove mi sento a mio agio. Mi laureerò a marzo, con una tesi sul doping genetico, che unisce il nuovo ambito a quanto studiato di biologia molecolare.

Hai mollato un dottorato, che ti avrebbe garantito anche una soddisfazione economica diversa, per buttarti nei Futures, dove di soldi non se ne vedono. Non è una scelta da tutti…
Quella di mollare il dottorato è una delle poche scelte che ho fatto convinto al 100%, e di cui non mi sono mai pentito. Così come di aver studiato biologia. Mi piaceva l’idea di sapere come funzionano le cose. So come è fatta l’acqua che bevo, so dove va a finire. È interessante. Ma questo non è un settore nel quale mi trovo a mio agio dal punto di vista lavorativo. Non ci sono grosse relazioni con la gente, ci sono tempi molto lunghi e pochi risultati. Insomma, poche emozioni. Uno come me ha bisogno di emozioni forti.

Il tennis dà emozioni forti?
Quelle che trovo nel tennis non riesco a trovarle in nient’altro. Magari se non giocassi a tennis andrei a fare i rave party nel fine settimana. È uno sport incredibile, che ti prende a livello mentale e dà tante soddisfazioni. Ti fa vivere la vita a pieno, e questo ha molto più valore dei soldi. Sono una persona a cui il denaro interessa veramente poco. Non compro dei vestiti da quando ero minorenne (ride, ndr). Sono altre cose che mi rendono felice: stare con la mia ragazza, coi miei amici o il mio cane, Rambo. La curiosità? L’abbiamo trovato a Santa Margherita di Pula, durante il Futures, e l’abbiamo adottato. Ai soldi non ho mai badato. L’anno scorso ho giocato un sacco di tornei Open, e li ho vinti quasi tutti. Sono circa 1.000 euro in tasca a torneo, ma non c’è gratificazione. Preferisco vincere un match in un Futures, anche con nessuno sugli spalti, ma sapere che è tennis vero. Di recente ho anche discusso con mio padre, vorrebbe che mi stabilizzassi. Ma per il momento sto ancora investendo su me stesso, e fino a quando non finisco il mio percorso e sono pronto per lavorare a tempo pieno, ai soldi non ci penso.

Lo conferma la tua specializzazione nel doppio, dove si guadagna ancora meno. Come mai?
Il vero obiettivo era quello di entrare fra i primi 300 giocatori della classifica di specialità (e ci è riuscito, ndr), per accedere al corso straordinario per diventare maestro nazionale Fit, che prevede un percorso più breve e vantaggioso rispetto a quello tradizionale. Lo farò fra gennaio e febbraio. Nel frattempo, il Ct Vicenza, per cui gioco la Serie A2, mi ha proposto di iniziare ad allenare dei ragazzi e seguirli sotto tutti i punti di vista: tennis, preparazione fisica, alimentazione e quant’altro. Insomma, sto per iniziare a fare quello per cui mi sono preparato. E accompagnando loro ai tornei posso giocare pure io. Come successo a Brescia, dove ho accompagnato Francesco Ferrari e già che c’ero ho disputato le qualificazioni. In più ho firmato in doppio: garantisce ospitalità per due persone, così Francesco ha potuto stare con me, vivere un ambiente di alto livello e allenarsi con un sacco di giocatori forti. Una grande esperienza.

Sembrerebbe che tu veda la tua carriera da giocatore come parte di un percorso di formazione…
È vero, ho sempre pensato in ottica futura. Fino quando posso giocare gioco, imparo, mi miglioro. Ora, dopo tanti anni, il mio percorso è definito, sono deciso. Ho fondato anche un’associazione sportiva che si chiama Alpha Tennis, di cui sono presidente. Non abbiamo un posto fisso: siamo un gruppo di ragazzi che si muovono a Verona, da un posto all’altro. L’obiettivo per il futuro è quello di prendere una struttura e realizzarci qualcosa per valorizzare il tennis in città, qualcosa di professionale e innovativo: mi piacerebbe avere solo campi in cemento. Al momento non ambisco a fare il maestro di circolo, faccio meno lezioni private possibile. Punto in alto, con la preparazione che ho e l’esperienza dei tornei credo di poterlo e doverlo fare. Per fare il maestro tradizionale sarò sempre in tempo.

Non capita spesso di incontrare giocatori che guardano al futuro. Stai seguendo degli esempi?
No, tutto quello che faccio viene da me, anche se dai miei genitori ho imparato tanto. Per quanto riguarda il gioco, invece, tutti mi hanno sempre detto che il più grande gap fra uno come me e i giocatori forti è il fisico. Sono molto leggero, peso meno di 70 chili, quindi cerco di ispirarmi e imitare quei giocatori che fisicamente mi assomigliano, come David Goffin o Gilles Simon.

Simon è uno dei giocatori più intelligenti del circuito…
Per forza. Non avendo potenza o particolare pesantezza di palla, dobbiamo usare altre armi. Contro Stakhovsky ho giocato bene perché la superficie velocissima aiuta chi si appoggia, chi sa giocare di fino. Anche se gli scambi sono brevi, bisogna pensare tantissimo, se fai la scelta sbagliata tiri tre metri fuori.

Cosa ti hanno dato 4/5 anni nel circuito in più rispetto a quanto studiato?
Stando nel circuito riesci a capire tante cose. Io ho sempre voluto parlare molto con gli altri giocatori, coi coach stranieri. Confrontarmi, capire cosa sentono, come si preparano. Tutte cose che chi non sta qui dentro non può capire. Si può studiare benissimo la didattica, la biomeccanica, ma se l’obiettivo è seguire un giocatore, e tu non hai vissuto quello che dovresti andare a insegnare, sei il primo per cui diventa difficile capirlo. Diciamo che qui impari a vivere il tennis. Anche nei tornei Open il livello non è basso, ma il tennis è vissuto in maniera diversa. Questo è un ambiente professionistico.

Sei l’unico laureato fra i tennisti italiani?
No, ma siamo pochissimi. A memoria mi viene in mente solo Matteo Fago, che ha fatto il college negli Stati Uniti (all’Università del Tennessee, ndr). È una cosa un po’ diversa, ma che consiglierei ai ragazzi che vogliono studiare senza lasciar perdere il tennis di alto livello, anche se la preparazione scolastica che hai lì forse non è all’altezza della nostra. In Italia funziona tutto male, ma le università ti preparano sul serio, specialmente nelle materie scientifiche. Per il resto, so che Marco Crugnola ci ha provato, Pietro Licciardi è iscritto, ma tennis e studi sono incompatibili, sia a livello di tempistiche sia a livello mentale. Diciamo che il mio caso è un’eccezione, ma non so se definirmi al 100% un giocatore, visto che c’è stata una sola stagione in cui l’ho fatto a tempo pieno. Nel nostro sport se non hai la testa completamente proiettata sul tennis non ce la fai. Per questo lo ritengo il più difficile del mondo.

Quindi fare il tennista è una scelta coraggiosa?
Sicuramente per buttarsi nel tennis ci vuole coraggio, perché si va a trascurare tutto il resto. Bisogna fare dei sacrifici, la propria famiglia deve fare dei sacrifici. Però è una scelta come un’altra, come proseguire con gli studi o iniziare a lavorare. La cosa particolare di questo mondo è che si fatica a tornare indietro. Il tennis è uno sport che illude: capita che batti il giocatore più forte, prendi punti ATP, e pensi poter arrivare in alto pure tu. È giusto crederci, perché se uno non ci crede non ce la farà mai, però ora vediamo la classifica ATP che va fino al numero 2.400, e nel 2014 hanno pagato l’IPIN (la tassa ITF per potersi iscrivere ai tornei, ndr) in 40.000. Sono 40.000 che ci credono. Dal punto di vista emotivo è bellissimo, però di tennis ci vivono solo i primi 200. Su 40.000. La cosa positiva è che dopo aver fatto il giocatore, se vuoi rimanere nell’ambiente, hai l’esperienza necessaria per insegnare.

Conoscendo la cultura media non altissima del tennista italiano, ti è mai capitato di non sentirti a tuo agio perché circondato da gente un po’ troppo superficiale?
All’inizio si, facevo fatica. È stato un po’ brusco passare da un ambiente in cui si parla solo con persone con una cultura media molto alta, a parlare esclusivamente di tennis o di calcio. Ma poi, conoscendo gli altri ragazzi in maniera più precisa, sono riuscito a fare discorsi profondi anche con gente da cui non me lo sarei mai aspettato. Ora la vivo bene, mi piace molto parlare con tutti, spiegare le cose, dare consigli agli amici, ai ragazzi più giovani. Mi sento come una sorta di maestro, anche se non è la parola giusta.

Avere studiato può dare qualcosa in più sul campo da tennis?
A livello di gioco no, perché nel tennis pensare troppo non è un vantaggio. Devi essere molto bravo a farlo il meno possibile. Io spesso ho avuto problemi perché penso troppo. Però quando poi vai a insegnare, gli studi svolti sono un valore aggiunto importantissimo.

A un 18enne che può provare a fare il tennista, ma è anche portato per studiare, cosa diresti?
Gli consiglierei di non avere fretta, potrebbe benissimo finire la scuola superiore e nel frattempo allenarsi, giocando magari qualche torneo giovanile nel periodo estivo. In questo modo potrà crescere come tennista, ma anche crearsi una base culturale che gli servirà nella vita. Dopo, se vuole continuare a fare entrambe le cose può andare al college. Se invece decide per il tennis, di buttarcisi dentro al 100%. All’università ci potrà pensare in futuro.

Primo Challenger a 30 anni, potresti essere fra i più vecchi. Cosa ti lascia questa esperienza?
Molto, anche perché è arrivata in maniera fortuita. Dopo la sconfitta nelle qualificazioni sono rimasto qui per il doppio, quindi perché non firmare come lucky loser? L’ho fatto e ho avuto questa chance, e quando ho visto che avrei giocato contro Stakhovsky ero felice. Scherzando con i miei amici ho detto che l’obiettivo era di riuscire a fare qualche game, ma dentro di me non dico che pensavo di poter vincere, ma almeno di giocare un buon match, visto che il campo molto veloce valorizza le mie caratteristiche. Così è stato (ha perso 6-4 7-5, ndr) e ho pure qualche rimpianto per un paio di chiamate dubbie alla fine del secondo set. Sarei potuto arrivare al tie-break e magari vincerlo. Ma nel terzo lui sarebbe salito e io calato, mentalmente non sono abituato a tenere questo livello così a lungo. Però ho fatto una bella figura, e sono felice per me stesso. Quando mi ricapita di giocare contro uno come Stakhovsky?